1789 :E' l'anno della presa della Bastiglia, che diede inizio al primo moto repubblicano della storia, è ricordato anche per aver dato i natali al primo eroe della democrazia: George Washington.
Il primo Presidente campeggia sulla banconota da un dollaro fin dalla sua introduzione, rimasta sostanzialmente invariata nel tempo , divenendo la più longeva banconota attualmente in circolazione.
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martedì 27 settembre 2016
domenica 18 settembre 2016
Corso Venezia e una vetturetta OTAV, 1906.
La OTAV, acronimo di Officine Turkheimer per Automobili e Velocipedi, è stata una casa automobilistica italiana, attiva a Milano dal 1905 al 1908.
L'azienda venne fondata dall'industriale milanese Max Turkheimer, già conosciuto e apprezzato per la produzione delle biciclette e dei motocicli Turkheimer.
L'idea di Turkheimer fu quella di realizzare una vetturetta a due posti, particolarmente leggera, dalle dimensioni ridotte e alla portata della classe borghese.
Il modello OTAV 5½ hp, messo in vendita all'inizio del 1906, ebbe subito un buon successo di vendite in Italia e all'estero, ma la crisi del settore dell'anno successivo, dovuta all'esubero di produzione, mise in gravi difficoltà le case automobilistiche europee e la OTAV chiuse i battenti.
fonte :https://www.facebook.com/MILANO.sparita.e.da.ricordare
sabato 17 settembre 2016
150 anni fa la “Rivolta del Sette e Mezzo” di Palermo: perché, oggi, è importante ricordarla
Il 15 Settembre di 150 anni fa i palermitani scesero in
piazza per ribellarsi agli assassini e predoni di casa Savoia. La
rivolta durò sette giorni e mezzo e fu repressa nel sangue dai generali
piemontesi. Ma anche se i soliti libri di storia hanno ignorato e
continuano a ignorarla, “La Rivolta del Sette e Mezzo” rimane nella
memoria dei palermitani che, quando vogliono, sanno ribellarsi alle
prepotenze dei Governi romani e degli stessi sindaci che li vessano con
tasse e balzelli truffaldini
“Se dovessi ripercorrere le strade della Sicilia, i siciliani mi prenderebbero a sassate”. Così scriveva Garibaldi ad Adelaide Cairoli nel 1866. I palermitani nel Settembre di quello stesso anno fecero molto di più, rivoltandosi e prendendo a fucilate i nuovi padroni dell’Isola. Il 15 Settembre del 1866, esattamente 150 anni fa, infatti, scoppiò a Palermo quella che è passata alla storia come “La rivolta del Sette e Mezzo”, così detta perché durò appunto sette giorni e mezzo. E precisamente dal 15 al 22 Settembre di quell’anno.
Erano passati appena sei anni dall’unità d’Italia, e già i siciliani si erano accorti a loro spese che il nuovo era anche peggio del vecchio.
Dall’assolutismo borbonico s’era passati ad un regime prevaricatore e repressivo, che aveva finito per tutelare, in una scontata logica gattopardiana, le stesse classi e la stessa aristocrazia terriera, il cui potere i siciliani si erano illusi fosse finito con l’unità d’Italia. Con il “Sette e Mezzo”, i palermitani si riscoprirono i degni eredi dei Vespri Siciliani, per lo spirito di ribellione, come allora, contro ogni forma di sopraffazione e di violenza.
Fu lo scontro feroce tra chi annettendo la Sicilia intendeva colonizzarla e chi da quell’annessione si illudeva di essere affrancato da ogni forma di dispotismo ed assolutismo: quella lotta all’assolutismo che aveva portato, nel 1860, alcuni siciliani a battersi a fianco dei garibaldini.
La rivolta scoppiò puntuale il 15 Settembre del 1866, al grido di “Viva la Repubblica”, “Viva santa Rosalia”, “Viva Francesco II“ ed allo sventolare delle bandiere rosse, a dimostrazione dell’eterogeneità e della spontaneità dell’insurrezione.
Alla rivolta presero parte renitenti di leva (in Sicilia quasi ventimila), ecclesiastici espropriati, repubblicani, mazziniani, socialisti, autonomisti, impiegati borbonici cacciati dai loro posti di lavoro, legittimisti, contadini che avevano sperato con le promesse di Garibaldi nella distribuzione delle terre ed avevano ricevuto soltanto fucilate ed i rappresentanti delle arti e dei mestieri, colpiti pesantemente dalla soppressione delle corporazioni religiose. Tutti accomunati nell’avversione verso un regime accentratore e dispotico, che nulla concedeva alle aspettative che il nuovo Stato unitario, in premessa, aveva illusoriamente creato.
Anche se la rivolta non ebbe un capo carismatico – e proprio per questo da alcuni storici fu definita “acefala” – furono proprio i rappresentanti delle corporazioni ad essere i soggetti propulsori della rivolta palermitana del “Sette e Mezzo”. Gli uomini che seppero condurre con disciplina l’azione degli insorti furono dei capisquadra riconosciuti autorevolmente nei vari quartieri di Palermo e rappresentanti delle varie corporazioni e dei ceti artigianali quali Francesco Bonafede (che in seguito aderirà all’internazionale socialista), Salvatore Nobile, Francesco Pagano, Salvatore Miceli; poi vi erano i reduci delle rivolte del 1848 e del 1860. Questi, grosso modo, furono i coordinatori strategici della rivolta.
Per dare maggiore legittimazione ed autorevolezza all’insurrezione venne costituito un comitato provvisorio rivoluzionario, rappresentativo di tutte le componenti che avevano promosso la rivolta, con la presenza anche di aristocratici, quali il marchese di Torrearsa ed il principe di Linguaglossa. A quest’ultimo venne affidato il compito di presiedere la rivolta.
Una volta sedata la sommossa gli aristocratici si dissoceranno e diranno di essere stati costretti con la forza a far parte del comitato.
La vera forza e la motivazione ideale dei rivoltosi fu la consapevolezza della “giusta causa” per la quale si battevano, spinti ormai da una condizione che andava oltre ogni limite di sopportazione per lo stato di prostazione sociale e di repressione autoritaria cui erano stati sottoposti dal nuovo governo Italo-piemontese con nuove tasse, la coscrizione obbligatoria e, in ultimo, la soppressione delle corporazioni religiose in applicazione alla legge Siccardi (già vigente nel regno di Sardegna sin dal giugno del 1850), con la conseguenza di buttare sul lastrico più di diecimila famiglie nella sola città di Palermo.
In poche ore, i rivoltosi, così fortemente motivati, riuscirono a sconfiggere le truppe sabaude comandate dal generale Calderina ed assumere in pieno il controllo della situazione.
Nei giorni successivi al 15 Settembre furono sbarcati nel porto di Palermo, ad ondate successive, più di 40.000 regi agli ordini del generale Aglietti prima e del generale Raffaele Cadorna poi, per reprimere nel sangue la rivolta e decretare lo stato d’assedio della città di Palermo.
In quegli eroici sette giorni i palermitani provarono l’ebbrezza e coltivarono la speranza di essere padroni dei loro destini, del loro futuro e della loro città. Avevano costretto ad asserragliarsi a Palazzo di Città, il generale Gabriele Camozzi, comandante delle guardia nazionale forte di 12.000 uomini, il prefetto Torrelli e il sindaco marchese Starrabba di Rudinì.
Alla fine di quelle eroiche sette giornate di lotta, quando si trovarono davanti 40.000 militari (fanti, granatieri e bersaglieri) sbarcati ad ondate successive da decine e decine di vascelli militari ed anche da navi mercantili) i rivoltosi di Palermo furono costretti alla resa.
I caduti e i feriti per le strade si contarono a migliaia. Mentre il generale Raffaele Cadorna (padre di Luigi, l’artefice delle disfatta di Caporetto), ormai padrone della piazza, poteva decretare lo stato d’assedio della città.
La reazione e le rappresaglie più sanguinose e terribili non si fecero attendere. Mentre da parte dei rivoltosi, per tutto il tempo della sommossa, sì era tenuto un contegno corretto, da veri rivoluzionari e non da briganti, senza che ci si abbandonasse a saccheggi e vendette personali o a ruberie, diverso fu il comportamento delle truppe regie e governative una volta ristabilito l’ordine.
In questo senso è significativa l’autorevole testimonianza del console di Francia dell’epoca a Palermo, che sul corretto comportamento dei rivoltosi durante la sommossa così ebbe a scrivere:
“I numerosi soldati ed ufficiali, che sono stati fatti prigionieri, non sono stati fatti oggetto di alcun cattivo trattamento. Tutti i consolati e le delegazioni straniere sono state rispettate. Questa condotta – concludeva il console di Francia a Palermo – non è certo quella dei briganti, ma di veri rivoluzionari che si rifanno ad un ideale, ad uno scopo politico ed a una giusta causa”.
In una lettera, un ufficiale dei granatieri, Antonio Cattaneo, a testimonianza delle atrocità commesse dai regi, scrisse ad alcuni amici.
“Vi posso assicurare che qualche vendetta la facemmo anche noi, fucilando quanti ci capitavano. Anzi il 23 Settembre, condotti fuori porta circa 80 arrestati si posero in un fosso e ci si fece fuoco addosso, finché bastò per ucciderli tutti”.
Ma ancor più raccapricciante, quando lo stato d’assedio posto dal generale Cadorna era stato già revocato con il ritorno, si fa per dire, alla legalità, fu quanto accadde tra il 12 ed il 15 Gennaio del 1867. Due gruppi di detenuti, senza alcun processo e senza alcuna sentenza, furono fucilati dalle truppe durante l loro traduzione a Palermo. Stesso destino per altri cinque prigionieri provenienti da Misilmeri, fucilati ad un paio di chilometri dal capoluogo.
Una rivolta quella del “Sette e Mezzo” del Settembre del 1866 epica e certamente gloriosa ma, more solito, puntualmente ignorata e dimenticata dai libri di scuola e dalla storiografia risorgimentale. Una rivolta che rimane un’eroica pagina della storia del popolo palermitano e proprio perché dimenticata è da parte nostra un atto dovuto ricordarla nella ricorrenza del suo 150° anniversario.
fonte : http://www.mybelice.it
“Se dovessi ripercorrere le strade della Sicilia, i siciliani mi prenderebbero a sassate”. Così scriveva Garibaldi ad Adelaide Cairoli nel 1866. I palermitani nel Settembre di quello stesso anno fecero molto di più, rivoltandosi e prendendo a fucilate i nuovi padroni dell’Isola. Il 15 Settembre del 1866, esattamente 150 anni fa, infatti, scoppiò a Palermo quella che è passata alla storia come “La rivolta del Sette e Mezzo”, così detta perché durò appunto sette giorni e mezzo. E precisamente dal 15 al 22 Settembre di quell’anno.
Erano passati appena sei anni dall’unità d’Italia, e già i siciliani si erano accorti a loro spese che il nuovo era anche peggio del vecchio.
Dall’assolutismo borbonico s’era passati ad un regime prevaricatore e repressivo, che aveva finito per tutelare, in una scontata logica gattopardiana, le stesse classi e la stessa aristocrazia terriera, il cui potere i siciliani si erano illusi fosse finito con l’unità d’Italia. Con il “Sette e Mezzo”, i palermitani si riscoprirono i degni eredi dei Vespri Siciliani, per lo spirito di ribellione, come allora, contro ogni forma di sopraffazione e di violenza.
Fu lo scontro feroce tra chi annettendo la Sicilia intendeva colonizzarla e chi da quell’annessione si illudeva di essere affrancato da ogni forma di dispotismo ed assolutismo: quella lotta all’assolutismo che aveva portato, nel 1860, alcuni siciliani a battersi a fianco dei garibaldini.
La rivolta scoppiò puntuale il 15 Settembre del 1866, al grido di “Viva la Repubblica”, “Viva santa Rosalia”, “Viva Francesco II“ ed allo sventolare delle bandiere rosse, a dimostrazione dell’eterogeneità e della spontaneità dell’insurrezione.
Alla rivolta presero parte renitenti di leva (in Sicilia quasi ventimila), ecclesiastici espropriati, repubblicani, mazziniani, socialisti, autonomisti, impiegati borbonici cacciati dai loro posti di lavoro, legittimisti, contadini che avevano sperato con le promesse di Garibaldi nella distribuzione delle terre ed avevano ricevuto soltanto fucilate ed i rappresentanti delle arti e dei mestieri, colpiti pesantemente dalla soppressione delle corporazioni religiose. Tutti accomunati nell’avversione verso un regime accentratore e dispotico, che nulla concedeva alle aspettative che il nuovo Stato unitario, in premessa, aveva illusoriamente creato.
Anche se la rivolta non ebbe un capo carismatico – e proprio per questo da alcuni storici fu definita “acefala” – furono proprio i rappresentanti delle corporazioni ad essere i soggetti propulsori della rivolta palermitana del “Sette e Mezzo”. Gli uomini che seppero condurre con disciplina l’azione degli insorti furono dei capisquadra riconosciuti autorevolmente nei vari quartieri di Palermo e rappresentanti delle varie corporazioni e dei ceti artigianali quali Francesco Bonafede (che in seguito aderirà all’internazionale socialista), Salvatore Nobile, Francesco Pagano, Salvatore Miceli; poi vi erano i reduci delle rivolte del 1848 e del 1860. Questi, grosso modo, furono i coordinatori strategici della rivolta.
Per dare maggiore legittimazione ed autorevolezza all’insurrezione venne costituito un comitato provvisorio rivoluzionario, rappresentativo di tutte le componenti che avevano promosso la rivolta, con la presenza anche di aristocratici, quali il marchese di Torrearsa ed il principe di Linguaglossa. A quest’ultimo venne affidato il compito di presiedere la rivolta.
Una volta sedata la sommossa gli aristocratici si dissoceranno e diranno di essere stati costretti con la forza a far parte del comitato.
La vera forza e la motivazione ideale dei rivoltosi fu la consapevolezza della “giusta causa” per la quale si battevano, spinti ormai da una condizione che andava oltre ogni limite di sopportazione per lo stato di prostazione sociale e di repressione autoritaria cui erano stati sottoposti dal nuovo governo Italo-piemontese con nuove tasse, la coscrizione obbligatoria e, in ultimo, la soppressione delle corporazioni religiose in applicazione alla legge Siccardi (già vigente nel regno di Sardegna sin dal giugno del 1850), con la conseguenza di buttare sul lastrico più di diecimila famiglie nella sola città di Palermo.
In poche ore, i rivoltosi, così fortemente motivati, riuscirono a sconfiggere le truppe sabaude comandate dal generale Calderina ed assumere in pieno il controllo della situazione.
Nei giorni successivi al 15 Settembre furono sbarcati nel porto di Palermo, ad ondate successive, più di 40.000 regi agli ordini del generale Aglietti prima e del generale Raffaele Cadorna poi, per reprimere nel sangue la rivolta e decretare lo stato d’assedio della città di Palermo.
In quegli eroici sette giorni i palermitani provarono l’ebbrezza e coltivarono la speranza di essere padroni dei loro destini, del loro futuro e della loro città. Avevano costretto ad asserragliarsi a Palazzo di Città, il generale Gabriele Camozzi, comandante delle guardia nazionale forte di 12.000 uomini, il prefetto Torrelli e il sindaco marchese Starrabba di Rudinì.
Alla fine di quelle eroiche sette giornate di lotta, quando si trovarono davanti 40.000 militari (fanti, granatieri e bersaglieri) sbarcati ad ondate successive da decine e decine di vascelli militari ed anche da navi mercantili) i rivoltosi di Palermo furono costretti alla resa.
I caduti e i feriti per le strade si contarono a migliaia. Mentre il generale Raffaele Cadorna (padre di Luigi, l’artefice delle disfatta di Caporetto), ormai padrone della piazza, poteva decretare lo stato d’assedio della città.
La reazione e le rappresaglie più sanguinose e terribili non si fecero attendere. Mentre da parte dei rivoltosi, per tutto il tempo della sommossa, sì era tenuto un contegno corretto, da veri rivoluzionari e non da briganti, senza che ci si abbandonasse a saccheggi e vendette personali o a ruberie, diverso fu il comportamento delle truppe regie e governative una volta ristabilito l’ordine.
In questo senso è significativa l’autorevole testimonianza del console di Francia dell’epoca a Palermo, che sul corretto comportamento dei rivoltosi durante la sommossa così ebbe a scrivere:
“I numerosi soldati ed ufficiali, che sono stati fatti prigionieri, non sono stati fatti oggetto di alcun cattivo trattamento. Tutti i consolati e le delegazioni straniere sono state rispettate. Questa condotta – concludeva il console di Francia a Palermo – non è certo quella dei briganti, ma di veri rivoluzionari che si rifanno ad un ideale, ad uno scopo politico ed a una giusta causa”.
In una lettera, un ufficiale dei granatieri, Antonio Cattaneo, a testimonianza delle atrocità commesse dai regi, scrisse ad alcuni amici.
“Vi posso assicurare che qualche vendetta la facemmo anche noi, fucilando quanti ci capitavano. Anzi il 23 Settembre, condotti fuori porta circa 80 arrestati si posero in un fosso e ci si fece fuoco addosso, finché bastò per ucciderli tutti”.
Ma ancor più raccapricciante, quando lo stato d’assedio posto dal generale Cadorna era stato già revocato con il ritorno, si fa per dire, alla legalità, fu quanto accadde tra il 12 ed il 15 Gennaio del 1867. Due gruppi di detenuti, senza alcun processo e senza alcuna sentenza, furono fucilati dalle truppe durante l loro traduzione a Palermo. Stesso destino per altri cinque prigionieri provenienti da Misilmeri, fucilati ad un paio di chilometri dal capoluogo.
Una rivolta quella del “Sette e Mezzo” del Settembre del 1866 epica e certamente gloriosa ma, more solito, puntualmente ignorata e dimenticata dai libri di scuola e dalla storiografia risorgimentale. Una rivolta che rimane un’eroica pagina della storia del popolo palermitano e proprio perché dimenticata è da parte nostra un atto dovuto ricordarla nella ricorrenza del suo 150° anniversario.
fonte : http://www.mybelice.it
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